Era l’estate del 1990. L’estate dei miei esami di terza media, l’estate dei mondiali e delle partite di pallone che mi tenevano inchiodata al piccolo televisore della nonna con il cuore che batteva forte per la nostra nazionale. L’estate in cui io e Sara portavamo una minuscola striscia di cuoio stretta intorno al polso con incisi i nomi dei nostri idoli, Paolo Maldini e Roberto Baggio. Avevo quattordici anni, la mia amica soltanto uno in più, eppure il pensiero che, a quell’epoca, dodici mesi pesassero come un secolo mi fa sorridere ancora. Le spiagge erano piene zeppe di ragazzi tedeschi e olandesi e se, fino all’anno precedente eravamo ancora bambine, quell’estate i nostri ormoni sembravano andati fuori controllo. Non sapevo di preciso quando, o come fosse accaduto, ma questo non cambiava di una virgola la realtà dei fatti perché l’inesorabile processo di trasformazione era ormai in atto.
Era l’estate in cui conoscemmo Franz, il ragazzo tedesco che Sara si ostinava a chiamare Frenk e che, ancora oggi, fa capolino da una polaroid sbiadita.
Who is Paolo? And Roberto? Chi è Paolo? E Roberto?
Cosa? Per me che avevo studiato il francese fin dal primo anno delle scuole medie, l’inglese non era che un insieme di suoni misteriosi. Mentre pronunciava quelle parole, Sara mi afferrò il polso, mi raccomando, se ci chiedono del braccialetto, just a football player, per quelli carini, my boyfriend, per tutti gli altri, mi istruiva, il sorriso furbo a illuminarle il viso dai lineamenti perfetti, mentre io mi perdevo nei suoi occhi di acquamarina e tra i suoi capelli resi d’oro dal sole di luglio. Ascoltare Sara, avere l’attenzione di Sara, aspettare l’estate solo per scoprire quali passioni l’avessero infiammata durante il resto dell’anno, passioni di cui innamorarmi a mia volta, di riflesso. Trascorrevo pomeriggi interi, i pigri pomeriggi di estati che apparivano infinite ai miei occhi di adolescente, a domandarmi cosa si provasse a essere come Sara, no, non una mera copia di lei, proprio Sara stessa anche per un solo istante. Ovviamente non l’avrei mai scoperto.
In quegli anni, nei mesi invernali, nonostante abitassimo entrambe a Milano, non ci incontrammo mai di persona. Forse la nostra amicizia fisica aveva un tempo e una collocazione geografica precise e, al di là di quelle barriere spazio temporali, ognuna di noi continuava ad esistere certo, ma solo per proprio conto. Ci limitavamo a scambiarci lunghe lettere, le sue ricche di aneddoti, le mie, sempre troppo banali.
(Dalla raccolta “Kore”, come polaroid rovesciate da una scatola in ordine sparso. Un esperimento di scrittura narrato in prima persona attraverso un mosaico di episodi.)