Cronache dai tempi del Coronavirus

E’ solo un giorno qualunque, Bologna, 26 novembre 2020

Come è triste oggi Bologna, sembra essersi spopolata. Proprio Bologna, dove la vita la sentivi pulsare. Mancano gli studenti che affollavano via Zamboni e Piazza Verdi, il brulicare degli impiegati in pausa caffè nei bar del centro e lo shopping improvvisato di una mattinata qualunque.

Qua e là per le strade spuntano nuove serrande abbassate che non si alzeranno più, neppure quando tutto questo sarà finito. Le camionette dei carabinieri sono parte integrante del rinnovato arredo urbano.

E poi c’è l’altalena dei positivi al Tg, il silenzio surreale delle ventidue quando scatta il coprifuoco, le mascherine che appannano gli occhiali e cancellano le emozioni dal viso perché ora, possiamo sorridere solo con gli occhi, come dice il ragazzo che vende la frutta al mercato del mio quartiere dove i banchetti se ne stanno lì, come corpi estranei, circondati da nastri di plastica a strisce rosse e bianche.

E allora si passeggia per scacciare la tristezza e ci si perde nei dettagli che prima non sia aveva avuto il tempo di notare. Quel muro, quell’angolo, quel minuscolo graffito segnato dal tempo, quel viso su un poster strappato a metà che stamane sembra un Picasso.

Questa è Bologna e oggi è solo un giorno della nuova normalità.

 

Un insolito punto di vista, Bologna 30 aprile 2020

Sono preoccupato. É da qualche settimana che si comportano in modo strano. Uscivano ogni giorno, ora invece lo fanno raramente e con il viso coperto da uno strano oggetto che non avevo mai visto. Dall’entusiasmo che hanno mostrato quando l’hanno indossato per la prima volta mi sembra di capire che non ne avessero mai posseduto uno simile, lo trattano come se fosse prezioso.

E’ invece ormai è chiaro che tutta questa faccenda dello stare tra le quattro mura, per qualche ragione a me ignota, li renda nervosi. E pensare che io in casa ci sto benissimo. Per carità, i primi tempi era pure piacevole godere della loro compagnia, ma adesso comincia a diventare troppo, non c’è più un posto dove io possa rilassarmi, il mio divano non è più mio, non per davvero, lo stesso vale per il letto, per non parlare dell’amato silenzio che è solo un ricordo perché quelle scatole, che loro sembrano apprezzare tanto, sono costantemente accese. Ci sono momenti in cui le fissano per ore, altri in cui non riescono a stare fermi e vagano da una stanza all’altra come mosche impazzite.

Non posso stare per conto mio neppure in balcone, è come se si fossero ricordati tutto ad un tratto di possederne uno. Se ne stanno lì immobili a prendere lunghe boccate d’aria e a godersi la lama di luce che filtra tra i palazzi. Questo lo capisco, anch’io adoro rotolarmi nel sole. Quanto a me faccio del mio meglio per essere d’aiuto, i miei umani sembrano gradire, dicono che le mie fusa hanno un potere rilassante.

 

Liguria, 29 agosto 2020

È un’estate strana questa nella mia Liguria, un po’ per le mascherine che sono diventate la compagnia fissa da qualche mese, un po’ per la nonna che sembra perdere un pochino di sé ogni giorno che passa. Un po’ perché anche Maria, la sua badante paraguayana è diventata una presenza stabile, proprio come le mascherine e, in casa, si vive a pane e telenovele sudamericane.
Sulla tavola, la sera, ritrovo spesso aromi di terre lontane, echi della tradizione guaraní ormai trapiantati qui, in Riviera, da molto tempo. Nell’insalata c’è l’uovo perché senza l’uovo in Paraguay non è per davvero insalata, e Maria mi prepara la sopa, la carne marinata all’aglio e le pesche al vino caramellate perché dice che la bella señora, così mi chiama, deve assaggiare i piatti del suo paese.
E poi ci sono le storie, suggestioni di un mondo difficile anche solo da immaginare per noi europei, raccontate in una lingua nuova che non è ancora italiano e non è più spagnolo ormai da troppi anni.